Categoria: Racconti

La tristezza e la furia

C'era una volta uno stagno meraviglioso.

Era una laguna di acque cristalline e pure, in cui nuotavano pesci di tutti i colori e dove tutte le tonalità del verde si riflettevano continuamente.

A quello stagno magico e trasparente si avvicinarono in buona compagnia la tristezza e la furia, per fare il bagno.

Entrambe si tolsero gli abiti e nude entrarono nello stagno.

La furia, frettolosa (com'è sempre la furia), si tuffò rapidamente e ancora più rapidamente uscì dall'acqua ...

Ma la furia è cieca, o comunque non distingue chiaramente la realtà, così, nuda e frettolosa, uscendo dallo stagno si infilò i primi vestiti che trovò...

E successe che quei vestiti non erano i suoi, ma quelli della tristezza...

E così, vestita da tristezza, la furia se ne andò.

Con grande calma, serena, sempre disponibile a rimanere nel luogo in cui si trova, la tristezza finì di farsi il bagno e senza fretta (o meglio, senza la consapevolezza del passare del tempo), con lenta pigrizia riemerse dallo stagno.

Sulla riva si accorse che i suoi vestiti non c'erano più.

Come sappiamo tutti, se c'è qualcosa che non piace alla tristezza è mettersi a nudo, così indossò gli unici abiti che c'erano vicino allo stagno, gli abiti della furia.

Si narra che da allora ci capita sovente di incontrare la furia, cieca, crudele, terribile, e iraconda, ma se ci prendiamo il tempo di osservarla bene, scopriamo che la furia che vediamo è soltanto una maschera, e dietro la maschera della furia in realtà ... si cela la tristezza.


Quando veniamo feriti proviamo rabbia e dolore.  Alcuni di noi sentono con più facilità la rabbia, altri il dolore.

Le emozioni non arrivano mai da sole, ma in coppia o comunque insieme. Possiamo provare contemporaneamente paura, rabbia e tristezza. E sentire solo la paura, ad esempio, o la rabbia.

Quando proviamo rabbia, da qualche parte dentro di noi c'è anche dolore e tristezza. Altrimenti non ci arrabbieremmo tanto se una cosa non ci avesse fatto male.

Pensiamoci.

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Vorrei

Vorrei che mi ascoltassi senza giudicarmi

Vorrei che mi dessi il tuo parere senza consigliarmi

Vorrei che avessi fiducia in me senza sollevare pretese

Vorrei che mi aiutassi senza tentare di decidere per me

Vorrei che ti prendessi cura di me senza annullarmi

Vorrei che mi guardassi senza proiettarti su di me

Vorrei che mi abbracciassi senza asfissiarmi

Vorrei che mi incoraggiassi senza spingermi

Vorrei che mi sostenessi senza farti carico di me

Vorrei che mi proteggessi senza dirmi bugie

Vorrei che ti avvicinassi senza invadermi

Vorrei che conoscessi la parte di me che ti piace di meno e che la accettassi, senza pretendere di cambiarla

Voglio che tu sappia, che da oggi puoi contare su di me incondizionatamente.


A volte giudichiamo, consigliamo, pretendiamo, decidiamo al posto degli altri, diventiamo pressanti, invadenti, e non ci accorgiamo che togliamo libertà agli altri, che li soffochiamo.

Invece di accettarli per quello che sono, cerchiamo di cambiarli. Ma questo è un atteggiamento che nasconde una sottile violenza.

Forziamo gli altri a corrispondere alle nostre aspettative. E quando questo accade, li perdiamo.

Li perdiamo, perché gli altri si possono stancare, dal momento che non si sentono accettati.

Li perdiamo, perché anche se rimangono e corrispondono alle nostre aspettative, non sono più loro stessi. Si sono adattati per farci contenti.

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L’elefante incatenato

C'era una volta un bambino piccolo che adorava il circo. Gli piacevano soprattutto gli animali.

Era attirato in particolar modo dall'elefante che, come scoprì più tardi, era l'animale preferito di tanti altri bambini.

Durante lo spettacolo quel bestione faceva sfoggio di un peso, di una dimensione e di una forza davvero fuori dal comune. Ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l'elefante era sempre legato a un paletto conficcato nel suolo.

Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri. E anche se la catena era grossa e forte, al bambino pareva ovvio che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.

Era davvero un bel mistero.

Che cosa lo teneva legato, allora?

Perché non scappava?

Quando ancora nutriva fiducia nella saggezza dei grandi, il bambino chiese al maestro, al padre, ad uno zio di risolvere il mistero dell'elefante.

Qualcuno di loro gli spiegò che l'elefante non scappava perché era ammaestrato.

Allora il bambino pose la domanda ovvia: "Se è ammaestrato perché lo incatenano?"

Il bambino non ricevette nessuna risposta sensata. Col passare del tempo dimenticò il mistero dell'elefante e del paletto. Ci pensava solo quando si imbatteva in altre persone che si erano poste la stessa domanda.

Molti anni dopo, quando era ormai grande, scoprì che qualcuno era stato abbastanza saggio da trovare la risposta giusta:

L'elefante del circo non scappa perché è stato legato al paletto fin da quando era piccolo, molto piccolo.

Allora chiuse gli occhi e immaginò l'elefantino indifeso, appena nato, legato al paletto. Immaginò l'elefantino che tirava, spingeva, sudava nel tentativo di liberarsi. Ma nonostante gli sforzi, non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui.

Lo vedeva addormentarsi sfinito, e il giorno dopo provarci di nuovo, e così il giorno dopo e quello dopo ancora... finché un giorno, un giorno terribile per la sua vita, l'elefantino accettò l'impotenza rassegnandosi al suo destino.

Ecco: l'elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché crede di non poterlo fare.

Reca impresso il ricordo dell'impotenza sperimentata subito dopo la nascita.

E il brutto è, che non è mai più ritornato seriamente su quel ricordo, non ha mai più messo alla prova la sua forza, mai più.


Anche noi, a volte, siamo come l'elefante del circo. Anche noi viviamo pensando che non possiamo fare un sacco di cose perché un tempo ci abbiamo provato ed abbiamo fallito.

Siamo cresciuti portandoci dentro il messaggio che ci siamo trasmessi da soli: "Non posso e non potrò mai".

Viviamo condizionati dal ricordo delle esperienze passate. L'unico modo per sapere se possiamo farcela è provarci di nuovo, mettendoci tutta la nostra forza, tutto il nostro cuore.

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Il vero valore dell’anello

C'era una volta un giovane che andò da un vecchio saggio in cerca di aiuto.

"Sono venuto qui, maestro, perché mi sento così inutile che non ho voglia di fare nulla. Mi dicono che sono un inetto, che non so fare bene nulla, che sono maldestro e un  po' tonto. Come posso migliorare? Che cosa posso fare perché mi apprezzino di più?"

Il maestro gli rispose senza guardarlo:

"Mi dispiace. ragazzo. Non ti posso aiutare perché prima ho un problema da risolvere. Dopo, magari ..."

E dopo una pausa aggiunse:

"Ma se tu mi aiutassi, magari potrei risolvere il mio problema più in fretta e dopo aiutare te"

"Con piacere, Maestro" disse il giovane, sentendosi di nuovo sminuito visto che la soluzione del suo problema era stata rimandata per l'ennesima volta.

"Bene" continuò il Maestro. Si tolse un anello che portava al mignolo della mano sinistra e, porgendolo al ragazzo, aggiunse:

"Prendi il cavallo che c'è la fuori e va al mercato. Ho bisogno di vendere questo anello perché devo pagare un debito. Vorrei ricavarne una bella sommetta, per cui non accettare meno di una moneta d'oro. Va' e ritorna con la moneta d'oro il più presto possibile".

Il giovane prese l'anello e partì. Appena fu giunto al mercato iniziò a offrire l'anello ai mercanti, che lo guardavano con un certo interesse finché il giovane diceva il prezzo.

Quando il giovane menzionava la moneta d'oro, alcuni si mettevano a ridere, altri giravano la faccia dall'altra parte e soltanto un vecchio gentile si prese la briga di spiegargli che una moneta d'oro era troppo preziosa in cambio di un anello.

Pur di aiutarlo, qualcuno gli offrì una moneta d'argento e un recipiente di rame, ma il giovane aveva istruzioni di non accettare meno di una moneta d'oro e così rifiutò l'offerta.

Dopo aver offerto il gioiello a tutte le persone che aveva incrociato al mercato, e saranno state più di 100, rimontò a cavallo demoralizzato e intraprese la via del ritorno.

Quanto avrebbe desiderato avere una moneta d'oro da regalare al maestro e liberarlo dalle sue preoccupazioni. Così finalmente avrebbe ottenuto l'aiuto il suo consiglio e l'aiuto.

Entrò nella stanza.

"Maestro" disse "mi dispiace, non è possibile ricavare quello che chiede. Magari sarei riuscito ad ottenere 2 o 3 monete d'argento, ma credo di non poter ingannare nessuno riguardo il vero valore dell'anello".

"Quello che hai detto è molto importante, giovane amico" rispose il maestro sorridendo.

"Prima dobbiamo conoscere il vero valore dell'anello. Rimonta a cavallo e vai dal gioielliere. Chi lo può sapere meglio di lui? Digli che vorresti vendere l'anello e chiedigli quanto ti darebbe. Ma non importa quello che ti offre: non glielo vendere. E ritorna qui con il mio anello"

Il giovane riprese di nuovo a cavalcare. Il gioielliere esaminò l'anello alla luce della lanterna, lo guardò con la lente, lo soppesò e disse al ragazzo:

"Dì al maestro, che se vuole vendere oggi stesso il suo anello, non posso dargli di più di 58 monete d'oro".

"58 monete?" esclamò il giovane.

"Si" rispose il gioielliere "lo so che avendo più tempo a disposizione potremmo ricavare circa 70  monete d'oro, ma se ha urgenza di vendere ..."

Il giovane si precipitò dal Maestro tutto emozionato a raccontargli l'accaduto.

"Siediti" disse il maestro dopo averlo ascoltato.

"Tu sei come questo anello: un gioiello unico e prezioso. E come tale puoi essere valutato soltanto da un vero esperto. Perché pretendi che chiunque sia in grado di scoprire il tuo vero valore?"

E così dicendo si rimise di nuovo l'anello al mignolo della mano sinistra.


Quante volte pensiamo che il nostro valore dipenda dal giudizio degli altri?

Non dobbiamo confondere il valore di mercato col valore personale.

Il valore di mercato dipende da quello che sappiamo fare, dalle nostre competenze, dall'esperienza che abbiamo mentre il valore personale dipende dal fatto che siamo esseri umani, unici e irripetibili.

Certe volte, quando abbiamo ricevuto poco amore, ci diamo da fare, cioè cerchiamo di essere bravi, competenti, affidabili, degni di stima ma così otteniamo solo amore condizionato. In qualche modo ce lo guadagniamo, l'amore.

Questa non è la via per colmare il vuoto che abbiamo dentro.

Quando un bambino viene al mondo semplicemente lo amiamo, se è stato desiderato, voluto, cercato. Anche se non ha ancora dimostrato quello che sa fare, lo amiamo. Sarebbe assurdo che cominciassimo ad amarlo solo quando porta a casa dei bei voti, dei risultati sportivi, lavorativi, ecc.

L'amore che riempie, che appaga, è l'amore incondizionato, che arriva prima dei risultati, prima di dimostrare quello che sappiamo fare.

E' come il calore del sole. Arriva e ci scalda senza che facciamo nulla, anzi, indipendentemente da quello che facciamo.

Quando, per ricevere amore, cerchiamo di raggiungere dei traguardi, come ad es. laurea, professione di prestigio, reddito elevato, macchina di lusso, ecc.  corriamo il rischio di rimanere delusi.

E' meglio che ci chiediamo:

"L'altra persona mi ama per quello che sono, per le mie caratteristiche e qualità o per quello che ho, per il reddito, le opportunità che offro, lo status, i contatti sociali, ecc."

E' quando perdo quello che ho, che lo scopro.

Nelle fiabe, non a caso, il principe o la principessa incontra l'amore quando è in incognito, cioè quando si trova per svariate circostanze a fare un lavoro umile, modesto, lontano dal palazzo.

E quando l'innamorato/a non conosce le origini, lo status, le ricchezze, i tesori dell'amato.

 

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Avere il coraggio di volare

E quando diventò grande suo padre gli disse:

"Figlio mio: non tutti nascono con le ali. Anche se non sei obbligato a volare, sarebbe un peccato se ti limitassi a camminare avendo le ali che il buon Dio ti ha regalato".

"Ma io non so volare" rispose il figlio.

"Vieni" disse il padre. Lo prese per mano e lo condusse in montagna, sull'orlo di un precipizio.

"Vedi figliolo? questo è il vuoto. Quando vorrai, potrai volare. Ma dovrai venire quassù, poi prendi un bel respiro e ti butti nel precipizio. Quando sarai nel vuoto distenderai le ali e riuscirai a volare ...".

Il figlio esitava.

"E se cado?"

"Anche se cadessi non moriresti. Ti farai soltanto qualche graffio che ti renderà più forte per il prossimo tentativo" rispose il padre.

Il figlio ritornò in paese dagli amici, i compagni con cui aveva camminato per tutta la vita.

I più ottusi gli dissero:

"Ma sei impazzito? Perché dovresti farlo? Tuo padre è tutto matto. A che ti serve volare? Perché non la pianti con queste sciocchezze? E poi che bisogno c'è di volare?"

Anche gli amici dalla mente più lucida avevano paura:

"Ma sarà poi vero? Non sarà mica pericoloso? Perché non cominci piano piano? Comunque, prima prova a buttarti  giù da una scala o dalla cima di un albero. Certo che dalla cima di una montagna ..."

Il giovane ascoltò il consiglio di chi gli voleva bene. Si arrampicò fin sulla cima di un albero e facendo appello a tutto il suo coraggio si buttò ...

Dispiegò le ali.

Le agitò nell'aria con tutte le sue forze ... ma purtroppo si schiantò al suolo.

Con un grosso bernoccolo sulla fronte andò incontro al padre.

"Mi hai mentito! Non posso volare. Ci ho provato e guarda che botta! Non sono come te. Le mie ali sono solo di figura" si mise a piagnucolare.

"Figlio mio" disse il padre:

"Per volare occorre creare lo spazio d'aria necessario per dispiegare le ali. E' come buttarsi con il paracadute: hai bisogno di una certa altezza per lanciarti. Per imparare a volare, si deve sempre cominciare dal correre un rischio. Se non si vogliono correre rischi, sarà meglio rassegnarsi e continuare a camminare per sempre".


Sappiamo correre dei rischi? O preferiamo buttarci solo se sotto c'è una rete?

Sappiamo dire basta e interrompere un rapporto che ci fa soffrire, anche se non abbiamo nessun altra relazione che ci sta aspettando?

Sappiamo dire basta e affrontare la solitudine, la mancanza e la paura?

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Il boscaiolo tenace

C'era una volta un boscaiolo che si presentò a lavorare in una segheria. Il salario era buono e le condizioni di lavoro ancora migliori, per cui il boscaiolo volle fare bella figura.

Il primo giorno si presentò al capo, il quale gli diede un'ascia e gli assegnò una zona del bosco.

L'uomo, pieno di entusiasmo, andò nel bosco a fare legna. In una sola giornata abbatté 18 alberi.

"Complimenti" gli disse il capo: "va avanti così". Incitato da quelle parole, il boscaiolo decise di migliorare il proprio rendimento, il giorno dopo. Così, quella sera andò a letto presto.

La mattina successiva si alzò prima degli altri e andò nel bosco. Nonostante l'impegno, non riuscì ad abbattere più di 15 alberi.

"Devo essere stanco" pensò. E decise di andare a dormire al tramonto. All'alba si alzò, deciso a battere il record dei 18 alberi.

Invece quel giorno non riuscì ad abbatterne neppure la metà.

Il giorno dopo ancora furono 7, poi 5, e l'ultimo giorno passò l'intero pomeriggio tentando di abbattere il suo secondo albero.

Preoccupato per quello che avrebbe pensato il suo capo, il boscaiolo andò a raccontargli quello che era successo, e giurava e spergiurava che si stava sforzando ai limiti dello sfinimento.

Il capo gli chiese: "Quando è stata l'ultima volta che hai affilato la tua ascia?"

"Affilare? Non ho avuto il tempo di affilarla: ero troppo occupato ad abbattere alberi".


Riposare, cambiare occupazione, partecipare ad un corso di formazione sono dei modi per affilare i nostri "utensili", le nostre competenze.

Quando ci ostiniamo, ci sforziamo, senza rendercene conto ci allontaniamo dalla nostra meta.

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Le ranocchie nella panna

C'erano una volta due ranocchie che caddero in un recipiente pieno di panna.

Si resero subito conto che sarebbero affogate: era impossibile nuotare o rimanere a galla per tanto tempo in quella massa densa come le sabbie mobili.

All'inizio le due rane si misero a sgambettare nel tentativo di raggiungere  il bordo del recipiente.

Ma era inutile; riuscivano solo a sguazzare sul posto e ad affondare. Diventava sempre più difficile risalire in superficie e respirare.

Una di loro disse ad alta voce:

"Non ce la faccio più. E' impossibile uscire di qui. Non si può nuotare in mezzo a questa roba viscida. E dato che devo morire, non vedo perché prolungare la mia sofferenza. Non riesco proprio a capire che senso abbia morire di sfinimento per uno sforzo inutile".

Detto questo smise di scalciare e affondò rapidamente, inghiottita dal denso liquido biancastro.

L'altra rana, più costante o forse più cocciuta disse tra sé:

"Non c'è verso di salvarsi. Non si può far nulla per andare avanti in mezzo a questa roba. Eppure, anche se la morte si avvicina, preferisco lottare fino all'ultimo respiro. Non voglio morire neanche un secondo prima che sia giunta la mia ora".

E continuò a sguazzare sempre sul posto, senza muoversi di un millimetro, per ore e ore.

Ad un tratto, con tutto quello zampettare e ancheggiare, agitare e tirar calci, la panna si trasformo in burro.

Meravigliata, la ranocchia spiccò un salto e pattinando raggiunse il bordo del recipiente. Lo scavalcò e se ne ritornò a casa gracidando allegramente.


Certe volte, sfiniti, ci diamo per vinti. Ma dal momento che non sappiamo cosa ci riserva il futuro, quando ci diamo per vinti, perdiamo l'opportunità di scoprirlo.

Certe volte le cose non vanno come ce le aspettiamo. Può sempre verificarsi un evento, un fatto inaspettato che cambia la nostra condizione e ci tira fuori dalle "sabbie mobili".

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