Categoria: Racconti

Il vaso di vetro

Un giorno un professore di filosofia entrò in classe con un grande vaso di vetro e una cesta piena di pietre delle dimensioni di un'arancia.

"Quante pietre potranno entrare nel vaso?" chiese.

E mentre  lo diceva, incominciò a disporle una alla volta, collocandole sul fondo e riempiendolo fino all'orlo.

Quando posò l'ultima pietra, coloro che avevano ipotizzato che ne potesse contenere 14 mormorarono soddisfatti. Il maestro disse:

"Quattordici ... Siamo sicuri che non ci stia più nulla?"

Tutti gli alunni risposero affermativamente.

"Sbagliato ..." rispose il docente e, tirando fuori un'altra cesta da sotto la cattedra incominciò a riempire il vaso con altre pietruzze.

Le pietruzze si incastrarono tra le altre più grandi occupando i vuoti rimanenti. Gli alunni applaudirono per la geniale trovata.

E quando ebbe riempito il recipiente, chiese una seconda volta:

"Quindi il vaso adesso è davvero pieno?"

"Ora sì" risposero gli alunni soddisfatti.

Ma il professore tirò fuori da sotto la cattedra un altro contenitore. Questo era pieno di fine sabbia bianca.

Con un cucchiaio il docente verso la sabbia nel vaso, occupando tutti i piccoli spazi che erano rimasti tra le pietruzze.

"E ora?" chiese il docente.

"Ora sì, ora è davvero pieno" risposero gli alunni.

Ma il professore tirò fuori da sotto la cattedra una caraffa piena d'acqua. E cominciò a versarla lentamente dentro al vaso. L'acqua venne assorbita dalla sabbia, che piano piano si inumidì completamente senza che nessuna goccia tracimasse fuori dal vaso.

"Adesso sì che possiamo dire che è pieno" affermò il professore. "Ma qual è l'insegnamento che traiamo da questo esperimento?".

La sala si riempì di vari mormorii.

Gli studenti pensarono alla necessità di un ordine, all'importanza di collocare le cose con astuzia e con ingegno, a non fidarsi delle apparenze e a tanti altri significati simbolici.

"Tutto quello che state dicendo è vero" intervenne il creativo docente "ma c'è un insegnamento più importante".

Il professore fece una pausa teatrale e poi aggiunse:

"Bisogna fare prima le cose più importanti, poi occuparsi di tutto ciò che viene dopo; ciascuna cosa ha la sua priorità e il suo momento per essere fatta. Non dobbiamo avere fretta e disporre tutto a caso disordinatamente. Se avessi cominciato a riempire il vaso con la sabbia, le pietre più grandi non sarebbero potute entrare tutte.

Ci sono cose a cui dobbiamo dare la precedenza; ma è altrettanto vero che per riuscire a riconoscerne la priorità, dovremo imparare ad attribuire il giusto valore alle nostre esigenze e dare loro l'importanza corrispondente.

Solo così, potremo renderci conto che, in generale, conviene cominciare sempre dalle cose più grandi, da quello che è più importante, per evitare di trovarci a dire: "Ora è troppo tardi".


Quando parliamo di priorità non dobbiamo però dimenticare due cose.

Innanzi tutto che nessun ordine è definitivo e inalterabile, e che la mia lista di priorità dipende sempre dal momento e dalle circostanze in cui la vita mi pone.

In secondo luogo, cosa forse ancora più importante, che il mio ordine non coincide necessariamente con quello degli altri.

Quante volte esigiamo che il nostro compagno o compagna, faccia "immediatamente" una certa cosa o che si occupi subito di ciò che noi consideriamo prioritario, urgente e imprescindibile?

Quante volte ci lamentiamo senza tenere conto che forse la nostra "pietra", per noi importantissima, per qualcun altro non è che un granellino di sabbia?

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Regali di Natale

Tanto tempo fa, durante la grande recessione degli anni trenta, in America, un uomo decise che non c'erano abbastanza soldi per grandi regali natalizi.

Allora comprò un rotolo di carta metallizzata con disegni natalizi, che gli costò molto caro. forse un involucro elegante poteva sostituire un costoso contenuto.

Il fine settimana del 15 dicembre decise di dedicare tutto il sabato ad avvolgere gli oggettini che aveva comprato.

Ma quando aprì la porta del sottoscala si rese conto che il tubo di cartone che conteneva la carta era vuoto, e con rabbia gridò:

"Chi ha usato la carta metallizzata che si trovava nel sottoscala?"

"Chi è stato? E' una carta carissima! Perché l'avete usata?"

Continuò a urlare fino a che la sua bambina, di soli quattro anni, si avvicinò con la testa bassa per confessare:

"Sono stata io, papà"

"Sei stata tu? Senza chiedere il permesso?"

"Si, papà" disse la bimba sull'orlo delle lacrime.

"Quella carta era molto cara, signorina. E non è un giocattolo. Serviva per avvolgere i regali di Natale"

"Si, ma è che ... " volle spiegare la piccola.

"E' che sei solo una maleducata. Tuo madre lavora come un mulo ogni giorno perché in casa non vi manchi nulla, e quando compro qualcosa perché ciascuno abbia il suo regalo, tu ..."

"Si, però papà ..."

"Zitta e ascolta! Avresti dovuto chiedere se potevi usare quella carta!"

"Non potevo farlo, papà, perché ... era una sorpresa".

"Qual era la sorpresa? Che mi sarei trovato senza carta per avvolgere i regali?"

"Ma no, papà ... è che l'ho usata per avvolgere un regalo-sorpresa".

"Ah sì? Un regalo ... tutta quella carta per un solo regalo? E per chi era il regalo, si può sapere?" domandò il padre sempre gridando.

La bambina aveva cominciato a piangere ...

"Era ... per te, papà".

L'uomo ammutolì. Si sentiva un essere mostruoso perché aveva sgridato la figlia che aveva avvolto un regalo per lui, e in tono tra il colpevole e il vergognoso per la sua furiosa reazione, trovò il coraggio di dire:

"Scusa se ho gridato, ma quella carta era molto costosa e non valeva la pena usarla per avvolgere un solo regalo".

"Si, papà ... ma la scatola era molto grande e ... alla fine è venuta così carina ..."

L'uomo, ormai intenerito, cercò di rimediare.

"Va bene, vediamo questa scatola, magari potremo utilizzare un po' della sua carta per avvolgere i regali di tutti gli altri".

La bambina tornò poco dopo dalla sua stanza con l'enorme scatola della sua vecchia casa delle bambole "avvolta" nella carta dorata.

"Buon Natale, papà" disse la bimba porgendogli il pacco.

Pieno di tenerezza, il padre cercò inutilmente di salvare la carta che svolgeva, mentre si rimproverava per non aver permesso alla figlia di parlare.

Tuttavia, esplose nuovamente di rabbia quando aprì la scatola e scoprì che dentro non c'era nulla.

"Non sai che quando si fa un regalo, soprattutto se è stato avvolto con tutta la carta metallizzata, il pacco DEVE contenere qualcosa? Tua mamma non ti ha insegnato che non si regala una scatola VUOTA?"

La piccola abbassò un'altra volta la testa e con le lacrime agli occhi disse:

"La scatola non era vuota, papà ... Io ci ho soffiato dentro 70 baci ... Così, quando sei in viaggio, dato che non puoi portarmi con te, avrai i bacini che ti ho regalato per Natale ..."

Il padre si sentì morire.

Prese sua figlia tra le braccia e le chiese di perdonarlo per non aver chiesto, per non aver compreso e per non aver saputo ascoltare.

Si  racconta che l'uomo abbia posto la cassa e la carta che l'avvolgeva sotto il suo letto. Rimase lì per tanti anni e, ogni volta che si sentiva triste, scoraggiato o amareggiato, raccoglieva dalla cassa uno dei baci che sua figlia gli aveva regalato, ricordandosi dell'affetto con cui la bambina li aveva soffiati lì dentro.


Ecco l'importanza di saper ascoltare, con attenzione.

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La piccola Marie

Marie (si legge Marì) era una bambina di undici anni che viveva in una vecchia casa di Parigi, nei primi anni del secolo scorso.

Da quando era giunto il primo freddo, aveva cominciato a lamentarsi di un forte dolore alla schiena che diventava insopportabile quando tossiva.

Il medico venuto a visitarla aveva formulato la diagnosi più temuta da sua madre: era affetta da tubercolosi.

A quei tempi, in cui non esistevano ancora gli antibiotici, contrarre la tubercolosi era garanzia di morte sicura. L'unica cosa che i medici potevano fare era prescrivere alcuni palliativi per placare il dolore, molto riposo e aver fede.

"Quasi tutti i pazienti, spiegò il medico, hanno più possibilità di guarire se lottano contro la malattia senza arrendersi; se Marie smettesse di combattere, morirebbe in alcune settimane".

Consapevole che si trattava più di un bel desiderio che di una terapia, aggiunse:

"Sono convinto che se la teniamo al caldo, le diamo da mangiare e le facciamo tornare la voglia di vivere, superato l'inverno, sarà fuori pericolo e la tubercolosi non sarà altro che un brutto ricordo".

Quando il dottore uscì, la madre guardò il calendario. Mancavano ancora due lunghi mesi all'arrivo della primavera.

Poiché sapeva che nessuno dei suoi compagni di classe sarebbe venuto a trovarla, a causa del comprensibile ma ingiustificato timore di un contagio, la madre decise di presentarsi alla scuola di Marie per chiedere alla maestra di dare alla bambina alcune lezioni private, non tanto per insegnarle qualcosa, ma per evitarle il triste e noioso isolamento della degenza.

La maestra disse che non le era proprio possibile. Le dispiaceva, ma anche altri quattro alunni erano nelle stesse condizioni e lei non avrebbe potuto prendersi cura di tutti; doveva occuparsi di quelli che erano in classe.

Il giorno successivo, mentre appendeva delle ghirlande per la casa tentando di creare un clima festoso, la madre guardò il pallido viso della ragazzina e la tristezza riflessa nel suo sguardo.

Allora ebbe un'idea. Con l'aiuto della governante, spostò tutti i mobili per portare il letto di Marie sotto la finestra della sala che si affacciava su un piccolo cortile centrale.

Da lì, pensò la madre, perlomeno avrebbe avuto un'altra visuale, avrebbe visto il cipresso al centro del giardino, l'edera sulle pareti degli edifici intorno e si sarebbe distratta osservando la gente per strada concentrata nelle compere di fine anno.

All'inizio di gennaio l'inverno si fece più duro e le condizioni di salute di Marie peggiorarono. In più di una notte gli attacchi di tosse furono tali che incominciò a vomitare sangue. Sia la madre che la figlia erano disperate.

Una mattina, tornata a casa dopo la spesa, la donna vide che Marie aveva lo sguardo perso fuori dalla finestra. Nessuno l'avrebbe mai riconosciuta nella bambina felice che era stata fino a qualche settimana prima.

La madre si avvicinò per chiederle come si sentisse e la bambina disse che aveva molta paura di morire. La madre la abbracciò stretta, appoggiandole la testa contro il suo seno e cercando di nascondere le lacrime. La bambina indicò il cortile e disse:

"Guarda mamma, vedi quell'edera sulle pareti dell'edificio di fronte? Qualche settimana fa era piena di foglie, alcune più verdi e altre più gialle. Guarda adesso quante poche ce ne sono. Io credo che quando l'ultima foglia dell'edera cadrà, anch'io morirò".

"Non devi pensare a queste brutte cose" le rispose la madre sistemando i cuscini e asciugandosi le lacrime senza farsi vedere. "A primavera ci saranno nuove foglie e la vita rinascerà di nuovo".

"Si, ma saranno altre foglie..." pensò la giovane in silenzio.

La malattia seguiva un corso altalenante, ma ogni volta che il medico veniva a visitare la bambina si rendeva conto che era sempre più demoralizzata.

Fino a che una mattina, la madre vide che Marie guardava qualcosa fuori dalla finestra con aria interessata. Senza volerla distrarre, si avvicinò lentamente cercando di capire che cosa stava attirando l'attenzione della figlia.

Si trattava di un giovane artista intento a dipingere alla finestra dell'edificio di fronte, al terzo piano. Qui riproduceva a colori vivaci le più belle vedute di Parigi: Notre-Dame, Montmartre, il Moulin Rouge ...

Per la prima volta dopo molti giorni, la madre vide Marie entusiasta e allegra, e ne era immensamente felice perché finalmente aveva trovato qualcosa che catturasse l'interesse della bambina; chissà che non riuscisse a convincere il pittore ad aiutarla.

Quello stesso pomeriggio si diresse verso la casa dell'artista e bussò alla sua porta. Quando il giovane aprì, gli spiegò che viveva nell'edificio di fronte, al primo piano, che aveva una figlia affetta da una grave malattia e quello che il medico aveva suggerito.

"Mi spiace molto, signora" disse il pittore "ma non capisco perché mi stia raccontando tutte queste cose".

"Sono venuta a chiederle se può dare alcune lezioni di disegno o di pittura a Marie. L'arte l'ha sempre appassionata, lo sa? Se lei potesse scendere a casa nostra, una volta tanto, a fare compagnia a Marie ... ovviamente la pagherò quello che riterrà opportuno ...". Poi, in tono implorante, aggiunse: "La vita di mia figlia dipende dalla sua decisione, la supplico ...".

Il giovane accettò, non tanto per i soldi, quanto per la pena che l'aveva mosso al vedere la bimba malata alla finestra, e decise di scendere tutti i giorni, portando con sé alcune tele, carboncini e colori per insegnarle a dipingere e darle un po' di gioia.

Nelle settimane successive tra i due nacque una bella amicizia.

Un pomeriggio, quando il pittore scese a trovarla, la trovò a letto in lacrime.

"Che succede, ma chèrie?" le domandò.

Marie gli raccontò che secondo lei la sua vita era collegata a quella dell'edera e disse:

"Ieri, dopo che te ne sei andato, c'è stato un vento fortissimo e molte foglie sono cadute. Quando la tormenta è finita ho contato le foglie che erano rimaste. Delle mille che erano, ora ce ne sono solo ventotto. Io so cosa significa: se cadranno tutte oggi, per me non ci sarà un domani".

Il pittore cercò di convincere Marie che la relazione tra la sua vita e l'edera era una sciocchezza.

"La vita continua disse" disse:

"Non devi pensare così. Devi ancora imparare bene la scala dei colori e disegnare le mele che ti ho dato; se no non potrai mai esporre i tuoi disegni in pubblico. In realtà, dato che nella mia vita ho studiato tanto, mi è arrivato un invito per l'America, dove mi hanno chiesto di esporre le mie opere".

"Quindi te ne andrai?" chiese Marie, pur non volendo conoscere la risposta.

"Tornerò al più tardi a maggio" disse lui. "Allora, se avrai fatto molta pratica, andremo insieme a disegnare in campagna, ti porterò nei musei e ti insegnerò a dipingere a olio".

"Non so se sarò ancora qui quando tornerai, pittore" ribatté Marie "dipende dall'edera".

L'artista affezionato alla giovinetta, la abbracciò e preferì non parlare più della sua brutta fantasia. Le diede un bacio sulla fronte e le assegnò i compiti che avrebbe svolto durante quei mesi.

Quando se ne andò, Marie ebbe l'impressione che il mondo le crollasse addosso e vide, nero presagio, che, mentre il pittore attraversava la strada per tornare a casa, un forte vento strappava di colpo altre tre foglie dall'edera e le faceva cadere violentemente a terra.

Da quel giorno, ogni mattina la bambina controllava dalla sua finestra le foglie rimaste ... e ogni mattina con grande dolore si rendeva conto che, durante la notte, la sua vita si era accorciata sempre di più.

"Che succede, figlia mia?" le domandò la madre, dopo una terribile nottata.

"Guarda, mamma" disse Marie, indicando la finestra "rimangono solo tre foglioline: una in basso, una a metà della parete e una solo in alto, accanto alla finestra del pittore. Mamma, ho paura".

"Non devi spaventarti, piccola" rispose la madre con una convinzione che non aveva "queste foglie resisteranno; sono le più forti, capisci? Mancano solo due settimane alla primavera".

La piccola incominciò allora a controllare ossessivamente la vita delle tre povere foglioline. E in una notte di febbraio, durante una feroce tormenta, la foglia di mezzo si stacco dal ramo e volò lontano. Marie non disse nulla ma raddoppiò le sue preghiere perché il buon Dio proteggesse le due foglioline.

"Mamma!" gridò una mattina "mamma, vieni"

"Cosa è accaduto?"

"Ce n'è una sola, mamma, una sola. Quella in basso è caduta questa notte. Morirò mamma. Ho paura, tanta paura. Abbracciami"

"Devi avere fede, bimba mai" disse la madre con voce tremante e ingoiando a stento le lacrime. "Manca poco alla primavera e c'è ancora una foglia. E' una foglia forte, sai?"

"Si, ma poco fa l'ho vista tremare ... coprimi mamma, ho freddo".

La mamma le rimboccò le coperte e andò a prendere alcuni panni umidi. La bimba era di nuovo febbricitante.

Ogni momento in cui Marie era sveglia dirigeva il suo sguardo fuori dalla finestra guardando l'edera ormai spoglia.

Sulla cima dell'edera, la piccola foglia marroncina era sempre appesa al ramo e la bambina, guardandola, incrociava istintivamente le dita, nella speranza che resistesse affinché lei stessa potesse salvarsi.

E la foglia non cedeva.

Neve, pioggia, gelo e vento.

Trascorsero i giorni e la foglia rimaneva appesa ...

Una mattina, mentre Marie la guardava speranzosa, un debole raggio di sole illuminò il giardino e la bambina si rese conto che sul prato erano comparsi teneri germogli verdi.

"Mamma, mamma, la foglia ce l'ha fatta. E' arrivata la primavera, mamma. Non è meraviglioso?"

La madre corse verso la figlia e l'abbracciò con le lacrime agli occhi. Lei non aveva avuto fiducia nella fogliolina, ma nella forza della figlia, che aveva superato l'inverno.

"Si bambina mia, è un miracolo".

Trascorsero i giorni e Marie cominciò a recuperare lentamente le forze.

Quando il medico le permise di uscire di casa, corse verso l'edificio di fronte per vedere se era tornato il suo amico pittore.

La padrona di casa si sorprese al vederla, perché era molto raro che qualcuno sopravvivesse alla tubercolosi.

"Sono felice che tu stia bene" le disse mentre le dava un bacio con sincera allegria. "Il tuo amico non è tornato, ma mi ha assicurato che sarà di ritorno fra poche settimane. Ha mandato questo per te".

Infilò la mano nella veste e le consegnò una letterina con su scritto:

DA CONSEGNARE ALLA MIA AMICA MARIE

Cara Marie,

come vedi è tutto finito.

Quando leggerai questa lettera mancheranno poche settimane alle nostre lezioni di pittura.

Ho comprato nuovi colori e pennelli; così ti regalo quelli che usavo prima.

Dì alla padrona che ti apra la porta del mio appartamento e prendili.

Fa' molta pratica, ricorda le mele ... e le scale dei colori

La bambina faceva i salti di gioia. Dopo aver chiesto la chiave alla padrona, salì nella piccola soffitta.

Una volta entrata iniziò a cercare la tavolozza e la trovò, come sempre, vicino alla finestra. Guardò fuori e vide, dall'alto, la sua casa, l'interno della sua camera e il suo letto.

Senza pensarci, Marie aprì la finestra e istintivamente cercò la sua compagna fedele, la foglia eroica, quella che aveva resistito all'inverno, la più forte di tutte ...

E la vide.

Era attaccata alla parete, molto vicina alla finestra del pittore.

Era lì. Ma non era una vera foglia, era stata dipinta sui mattoni dal suo amico ...


Saremo capaci di amare così. Saremo capaci di incoraggiare, sostenere, accompagnare con delicatezza coloro che amiamo, anche se siamo lontani?

Saremo capaci di fare il grande passo verso il vero amore?

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L’amore e la follia

Un'antica leggenda racconta che tutte le emozioni e le esperienze umane erano solite incontrarsi in un magico bosco verdeggiante per giocare insieme.

Lì, l'odio, la paura, la sorpresa, l'imbarazzo, il senso di colpa, la vergogna, il rammarico, il disgusto, la speranza, l'invidia, la tristezza, la libertà, la tenerezza, l'orgoglio, la serenità, l'amore e la gioia correvano allegramente rincorse dalla rabbia, dalla follia, dal tradimento, dalla curiosità, dall'eccitazione, dalla passione, dall'entusiasmo, dall'euforia e dalla spensieratezza.

La leggenda narra che un giorno, giocando a nascondino, la follia cercava l'amore che si era nascosto sotto una montagna di fogliame, e il tradimento le offrì un forcone dalle punte affilate esortandola a infilarlo con vigore tra le foglie.

La follia non si rese conto del danno provocato dalla sua azione. Si dice che, da allora, l'amore rimase cieco e che la follia, piena di sensi di colpa, guidi i suoi passi ...

Dopo molto tempo che camminavano insieme, l'amore e la follia formarono una coppia felice e spensierata.

Ma poche cose durano in eterno, e giunse il momento in cui l'amore, stanco di vivere senza controllo e pieno di incertezze, abbandonò la sua compagna per sposarsi con la ragione.

L'amore non prese una decisione sbagliata, perché, guidato dalla ragione, visse nella tranquillità, senza correre pericoli, e le insicurezze svanirono di colpo.

Ma nulla è eterno e, dopo qualche tempo, l'amore iniziò a rendersi conto che tutta la sicurezza e la stabilità di cui godeva in realtà lo annoiavano. Gli sembrava di vivere chiuso in un'ostrica.

L'amore, dopo aver riflettuto molto insieme alla sua amica fantasia, prese una decisione, o meglio, due decisioni: avrebbe continuato ad essere sposato con la ragione, ma a volte si sarebbe concesso la libertà di rincontrare la sua vecchia amante, la follia, e di lasciarsi trascinare nei vortici della passione, per poi ritornare, rigenerato, nelle sicure braccia della ragione.


E' importante introdurre un pizzico di follia nel nostro rapporto di coppia, in modo da ridargli vita, briosità, leggerezza.

Troppa sicurezza, intesa come monotonia, noia, prevedibilità, privano l'amore di quelle emozioni che gli ridanno slancio e vigore.

L'amore rifugge tutto ciò che è metodico e ordinato e ricerca l'imprevedibilità, la sorpresa, lo stupore, la commozione, l'eccitazione e la libertà.

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Come un seme

Un seme sa ...

come diventare albero.

Ci sono tantissimi semi ...

Ci sono semi di mela, di albicocca, di pera, di quercia, di tiglio, di melograno, di kiwi, di mandarino, ...

Un seme non ha altro compito

che diventare ciò che è.

Può un pesco diventare un melo?

E un castagno diventare un ciliegio?

I semi attecchiscono dove possono

e come possono.

Si nutrono di quello che c'è ...

per germogliare, crescere e fiorire.

Il nostro compito è come quello di un seme,

diventare ciò che siamo,

sviluppare quello che sta dentro di noi, in embrione,

per poi esprimerlo nel mondo

e donare.

 

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Illusioni

C'era una volta un contadino brutto e grasso

che si era innamorato di una principessa bella e bionda.

Un giorno la principessa, chissà perché,

diede un bacio a quel contadino brutto e grasso

e come per magia questi si trasformò

in un principe snello e affascinante.

(almeno così si sentiva lui)

(almeno così lo vedeva lei)

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Rendersi conto

Mi alzo una mattina,

esco di casa,

c'è una buca nel marciapiede,

non la vedo,

ci casco dentro.

 

Il giorno dopo ...

esco di casa,

mi dimentico che c'è una buca nel marciapiede

e ci ricasco dentro.

 

Il terzo giorno,

esco di casa cercando di ricordarmi

che c'è una buca nel marciapiede,

e invece

non me lo ricordo

e ci casco dentro.

 

Il quarto giorno,

esco di casa cercando di ricordarmi

della buca nel marciapiede,

me ne ricordo,

e ciononostante non vedo la buca

e ci casco dentro.

 

Il quinto giorno,

esco di casa,

mi ricordo che devo tener presente

la buca nel marciapiede

e cammino guardando per terra,

la vedo

ma anche se la vedo,

ci casco dentro.

 

Il sesto giorno,

esco di casa,

mi ricordo della buca nel marciapiede,

la cerco con lo sguardo,

la vedo,

cerco di saltarla,

ma ci casco dentro.

 

Il settimo giorno,

esco di casa,

vedo la buca,

prendo la rincorsa,

salto, sfioro con la punta dei piedi il bordo dall'altra parte,

ma non mi basta e ci casco dentro.

 

L'ottavo giorno,

esco di casa,

vedo la buca,

prendo la rincorsa,

salto,

atterro dall'altra parte.

Mi sento così orgoglioso di esserci riuscito,

che mi metto a saltellare dalla gioia

e mentre saltello

casco di nuovo nella buca.

 

Il nono giorno,

esco di casa,

vedo la buca,

prendo la rincorsa,

la salto,

e proseguo per la mia strada.

 

Il decimo giorno,

soltanto oggi

mi rendo conto

che è più comodo camminare

sul marciapiede di fronte.


La strada che porta verso la consapevolezza e il miglioramento procede così.

Tanti tentativi e sforzi, finché arriva un'intuizione semplice e geniale.

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Il Re e il Mago

C'era una volta, in un paese lontano, un Re al quale piaceva tanto sentirsi potente.

Ed erano così grandi le sue ansie di potere, che non gli bastava averlo, ma voleva che tutti lo ammirassero per la sua potenza.

Come alla matrigna di Biancaneve non bastava vedersi bella, anche lui aveva bisogno di guardarsi allo specchio e soprattutto che gli dicesse quanto fosse potente.

Lui non aveva specchi magici, ma poteva contare su di una moltitudine di cortigiani e servitori ai quali chiedere se fosse lui il più potente del regno.

Invariabilmente tutti gli dicevano la stessa cosa:

"Altezza, tu sei molto potente, ma lo sai che il Mago ha un potere che nessuno possiede: lui conosce il futuro"

(A quei tempi, alchimisti, filosofi, pensatori, religiosi, e mistici venivano chiamati genericamente Maghi)

Il Re era invidiosissimo del Mago del regno, non solo perché avesse fama di uomo buono e generoso, ma perché il popolo intero lo amava, lo ammirava, era felice della sua esistenza e che avesse scelto di vivere proprio lì da loro.

Mentre non dicevano lo stesso del Re.

Forse per quel suo bisogno di dimostrare a tutti che era lui a comandare, il Re non era giusto, né equanime, e tanto meno benevolo.

Un giorno, stanco di sentirsi dire dalla gente quanto fosse potente e amato il Mago, o spinto da quel misto di rabbia e timore che genera l'invidia, il Re tramò un piano: avrebbe organizzato una grande festa alla quale avrebbe invitato il Mago.

Dopo cena, avrebbe richiamato l'attenzione dei presenti.

Avrebbe fatto venire il Mago al centro del salone e davanti ai cortigiani gli avrebbe domandato se sapeva leggere il futuro.

L'invitato avrebbe avuto 2 possibilità: dire di no, deludendo così l'ammirazione dei più, oppure dire di si, confermando le ragioni della propria fama.

Il re era sicuro che avrebbe scelto la seconda possibilità. Allora gli avrebbe chiesto in quale data sarebbe morto. Lui avrebbe dato una risposta, un giorno qualsiasi, non importava quale.

In quel preciso istante il Re pensava di sguainare la spada e di ucciderlo.

Così avrebbe preso 2 piccioni con una fava: sbarazzarsi per sempre del Mago e dimostrare che non era stato in grado di predire il futuro, visto che si era sbagliato.

In una sera avrebbe messo fine alla vita del Mago e al mito dei suoi poteri.

I preparativi ebbero subito inizio, e ben presto giunse il giorno dei festeggiamenti.

Dopo una cena succulenta, il Re fece venire il Mago al centro del salone e gli chiese:

"E' vero che sai leggere il futuro?"

"Si, un po'" rispose il Mago.

"E sapresti leggere il tuo futuro?" chiese il Re.

"Si, un po'" rispose il Mago.

"Allora voglio che tu me ne dia la prova" disse il Re. "In quale giorno morirai? Qual è la data della tua morte?"

Il Mago sorrise, lo guardò negli occhi e non rispose.

"Non è per questo" disse il Mago "ma quello che so non ho il coraggio di dirtelo"

"Come sarebbe a dire che non hai il coraggio?" disse il Re.

"Io sono il tuo sovrano e ti ordino di dirmelo. Devi renderti conto che è molto importante per il regno sapere quando perderemo le sue personalità più illustri... Rispondi, dunque, quando morirà il Mago del regno?"

Dopo un silenzio carico di tensione, il Mago lo guardò e disse: "Non posso dire la data precisa, ma so che il Mago morirà esattamente un giorno prima del Re".

Per alcuni attimi il tempo parve sospeso. Un mormorio percorse i presenti.

Il Re aveva sempre detto di non credere ai maghi né alle predizioni, ma sta di fatto che non ebbe il coraggio di uccidere il Mago.

Il sovrano abbassò lentamente le braccia e rimase in silenzio.

I pensieri si affastellavano nella sua mente.

Si rese conto di aver sbagliato.

Il suo odio era stato un cattivo consigliere.

"Altezza, sei pallido? Che cosa ti succede?" chiese il Mago.

"Mi sento male" rispose il monarca "mi ritirerò nelle mie stanze, grazie di essere venuto".

E con un vago gesto girò sui tacchi e si incamminò verso i suoi appartamenti.

Il Mago era astuto, aveva dato l'unica risposta che gli avrebbe evitato la morte.

Gli aveva forse letto nel pensiero?

La predizione non poteva essere vera. Ma ... e se lo fosse stata? Il Re si sentiva così confuso. Gli venne in mente che sarebbe stata una tragedia se al Mago fosse accaduto qualcosa di brutto mentre ritornava a casa.

Il Re ritornò sui suoi passi e disse ad alta voce:

"Mago, sei famoso nel regno per la tua saggezza, per cui ti prego di trascorrere la notte a palazzo, perché domani ho bisogno di consultarmi con te per alcune decisioni che devo prendere".

"Maestà, sarebbe un grande onore" rispose il Mago facendo un inchino.

Il Re diede ordine alle guardie di accompagnare il Mago nelle stanze degli ospiti e di vigilarne la porta per assicurarsi che non gli accadesse niente.

Quella notte il Re non riuscì a dormire. Era molto inquieto al pensiero di quello che sarebbe successo se al Mago avesse fatto male la cena, o se si fosse ferito accidentalmente durante la notte, o se, più semplicemente, fosse giunta la sua ora.

La mattina di buon'ora, il Re mandò a bussare alla porta dell'appartamento del suo ospite.

In vita sua non aveva mai pensato di chiedere consigli per nessuna decisione, ma stavolta, non appena il mago lo ricevette, gli pose la domanda ... gli serviva un pretesto per vederlo.

E il mago, che era saggio, gli diede una risposta esatta, giusta e creativa.

Il Re ascoltò a malapena la risposta, ma elogiò l'ospite per la sua intelligenza e gli chiese di fermarsi ancora un giorno per potersi consultare con lui per un'altra faccenda.

(Ovviamente il Re voleva soltanto accertarsi che non gli succedesse niente)

Il Mago, che godeva della libertà che conquistano soltanto gli uomini illuminati, accettò.

Da allora, tutti i giorni, la mattina o la sera, il Re si recava nelle stanze del Mago per consultarsi con lui e lo impegnava per un nuovo consulto per il giorno successivo.

Dopo qualche tempo il Re iniziò a rendersi conto che i suggerimenti del nuovo consigliere erano sempre azzeccati, e quasi senza accorgersene finì per tenerne conto in tutte le decisioni che doveva prendere.

Passarono i mesi, e anche gli anni.

E come sempre succede: STARE VICINO A CHI SA, RENDE PIU' SAGGIO CHI NON SA.

E fu così: il Re piano piano diventava sempre più giusto. Non era più un uomo dispotico e autoritario. Non aveva più bisogno di sentirsi potente, e sicuramente per questo motivo smise di sentire il bisogno di dimostrare a tutti il proprio potere.

Cominciò ad imparare che anche l'umiltà aveva i suoi vantaggi.

Cominciò a regnare in modo più saggio e benevolo.

E successe che il popolo cominciò ad amarlo, come non lo aveva mai amato.

Il re non andava più a trovare il Mago per chiedergli della sua salute, andava da lui per imparare davvero, per condividere una decisione o semplicemente per fare due chiacchiere.

Il Re e il Mago erano diventati grandi amici.

Finché un giorno, 4 anni dopo la famosa cena, senza nessuna ragione speciale il Re si ricordò.

Si ricordò che quell'uomo, che ora era il suo miglior amico, era stato il suo nemico più odiato.

Si ricordò del piano che aveva tramato per ucciderlo. E si rese che non poteva continuare a mantenere il segreto senza sentirsi un ipocrita.

Il Re prese coraggio e andò nelle stanze del Mago. Bussò alla porta e non appena fu entrato disse:

"Fratello, devo raccontarti una cosa che mi opprime il cuore"

"Parla" rispose il Mago "e allevia le tue pene".

"Quella sera, quando ti ho invitato a cena e ti ho chiesto di predire la tua morte, in realtà non volevo conoscere il tuo futuro, pensavo di ucciderti qualunque cosa avessi detto, volevo che la tua fama di indovino venisse smitizzata dalla tua morte. Ti odiavo perché tutti ti amavano... Mi vergogno così tanto".

Il Re tirò un respiro profondo e proseguì:

"Quella notte non ho avuto il coraggio di ucciderti e adesso che siamo amici, più che amici, fratelli, provo orrore al pensiero di tutto quello che avrei perduto se lo avessi fatto. Oggi ho capito che non potevo continuare a tenere nascosta a me stesso la mia infamia. Avevo bisogno di dirtelo per ricevere il tuo perdono, o il tuo disprezzo, senza menzogne".

Il Mago lo guardò e disse:

"Ci hai messo tanto tempo per riuscire a dirmelo, e comunque sono felice che tu lo abbia fatto, perché soltanto così posso dirti che lo sapevo già. Quando mi hai rivolto quella domanda accarezzando l'elsa della spada con la mano, le tue intenzioni erano talmente chiare che non c'era bisogno di essere un indovino per rendersene conto".

Il Mago sorrise e posò la mano sulla spalla del Re:

"Come giusto premio per la tua sincerità, devo dirti che anch'io ti ho mentito... Confesso che ho inventato quell'assurda storia della mia morte prima della tua per darti una lezione. Una lezione che soltanto oggi sei in grado di comprendere, e che forse è l'insegnamento più importante che tu abbia ricevuto da me.

Andiamo in giro per il mondo odiando e rifiutando aspetti degli altri e anche di noi stessi che riteniamo degni di disprezzo, minacciosi o inutili. Eppure, a pensarci bene, alla fine ci rendiamo conto di quanto ci costerebbe vivere senza quelle cose che un giorno abbiamo rifiutato.

La tua morte mio caro amico, arriverà il giorno esatto, il giorno della tua morte, non un minuto prima. E' importante che tu sappia che sono vecchio, e il mio giorno si sta certamente avvicinando. Non c'è nessun motivo per credere che la tua morte debba essere legata alla mia. Sono state le nostre vite a legarsi, non le nostre morti".

Il Re e il Mago si abbracciarono e brindarono alla fiducia che l'uno riponeva nell'altro in quel rapporto di amicizia che avevano saputo costruire insieme.

Narra la leggenda ...

che misteriosamente ...

quella stessa notte ...

il Mago ...

morì nel sonno.

Il Re venne a conoscenza della triste notizia la mattina dopo e si sentì davvero sconsolato.

Non era angosciato all'idea della propria morte, aveva imparato dal Mago a distaccarsi perfino dalla permanenza in questo mondo.

Era triste per la morte del suo amico.

Quale strana coincidenza aveva fatto sì che il Mago gli avesse raccontato tutto questo proprio la sera prima della sua morte?

Forse, in un qualche modo sconosciuto, il Mago lo aveva fatto confessare per distoglierlo dalla fantasia di morire un giorno dopo di lui.

Un ultimo gesto d'amore per liberarlo dai timori di altri tempi.

Si narra che il Re si alzò e andò in giardino per scavare con le sue mani, sotto la sua finestra, una tomba per il suo amico Mago.

Vi seppellì il corpo e rimase il resto della giornata accanto al cumulo di terra piangendo come si piange soltanto davanti alla perdita delle persone più amate.

E al calar della sera il Re ritornò nei suoi appartamenti.

Narra la leggenda, che la sera successiva, 24 ore dopo la morte del Mago, il Re morì nel suo letto mentre dormiva.

Forse per caso ...

forse per dolore ...

forse per confermare l'ultimo insegnamento del suo maestro.


Alcune persone cercano il potere. Ma all'inizio, si sono mosse, come tutti, per cercare l'amore; per cercare di essere accettate, amate, riconosciute, desiderate.

Quando l'amore tanto agognato non arriva, alcune persone smettono di desiderarlo, di cercarlo e cominciano a cercare il potere.

Perché accade questo?

Perché il bisogno d'amore, ricorda loro la condizione di vulnerabilità, di debolezza, di bisogno iniziale e certe persone che non si sono sentite amate, non vogliono più trovarsi in una condizione simile.

Cosa fanno allora?

Cercano il potere, cioè la condizione diametralmente opposta, nella quale sono loro a decidere, a disporre, a concedere. Cercano l'onnipotenza per non sentirsi più nell'impotenza.

Di più. Odiano le persone deboli perché ricordano loro la condizione iniziale di grande vulnerabilità.

Ci vuole un gran "lavoro" per fare in modo che ricontattino quel bisogno, quel desiderio e tutte le emozioni connesse a quei momenti iniziali: tristezza, paura, senso di impotenza, disperazione, dolore, senso di abbandono, furia, ecc.

E' l'unica via che permette loro di placare l'odio e di ritrovare la pace interiore.

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Il ricercatore

Questa è la storia di un ricercatore.

Un ricercatore è qualcuno che cerca, non necessariamente qualcuno che trova.

E non è necessariamente qualcuno che sa cosa stia cercando, è semplicemente qualcuno per cui la vita è una ricerca.

Un giorno il ricercatore sentì che doveva recarsi nella città di Tamir. Aveva imparato a prestare sempre attenzione alle sensazioni provenienti da una regione profonda e sconosciuta di se stesso, per cui lasciò tutto e partì.

Dopo 2 giorni di marcia lungo sentieri polverosi scorse in lontananza Tamir. Appena prima di entrare in paese, una collina sulla sinistra del sentiero attirò la sua attenzione.

Era tutta ricoperta di un verde meraviglioso e c'erano tanti alberi, tanti uccelli e fiori incantevoli. Era interamente circondata da un piccolo recinto di legno tirato a lucido.

Una porticina di bronzo lo invitava ad entrare.

All'improvviso, sentì che stava dimenticando il paese e cedette alla tentazione di riposare un momento in quel luogo.

Il ricercatore varcò la soglia e prese a camminare lentamente in mezzo alle pietre bianche che parevano distribuite a casaccio in mezzo agli alberi.

Lasciò che i suoi occhi si posassero come farfalle su ciascun dettaglio di quel paradiso variopinto.

I suoi erano gli occhi di un ricercatore, e forse per questo motivo scoprì, sopra una di quelle pietre, l'iscrizione:

Abdul Tareg, visse 8 anni, 6 mesi, 2 settimane e 3 giorni

Ebbe un leggero sussulto rendendosi conto che quella pietra non era semplicemente una pietra, era una lapide.

Provò pena al pensiero che un bambino così piccolo fosse seppellito in quel luogo.

Guardandosi intorno l'uomo si rese conto che anche sulla pietra a fianco c'era un'iscrizione. Si avvicinò per leggerla, diceva:

Yamir Kalib, visse 5 anni, 8 mesi e 3 settimane

Il ricercatore avvertì una grande commozione. Quel luogo bellissimo era un cimitero, e ogni pietra era una tomba.

Una per una, prese a leggere le lapidi.

Recavano tutte iscrizioni simili: un nome e il tempo di vita esatto del defunto.

Ma la cosa più sconvolgente fu scoprire che la persona che aveva vissuto più a lungo aveva superato a malapena gli undici anni.

Si senti pervadere da un grande dolore, si sedette e scoppiò in lacrime.

Il custode del cimitero stava passando di lì e gli si avvicinò. Rimase a guardarlo piangere in silenzio e poi gli chiese se stesse piangendo per qualche famigliare.

"No, no, nessun famigliare" disse il ricercatore

"Ma che cosa succede in questo paese? Che cosa c'è di così terribile in questa città? Perché tanti bambini sono morti e sono stati seppelliti in questo posto? Quale orribile maledizione grava su questa gente, tanto da costringervi a costruire un cimitero per bambini?

L'anziano sorrise e disse:

"Stia tranquillo. Non esiste nessuna maledizione. Semplicemente qui seguiamo un'antica usanza. Ora le racconto ...

Quando un giovane compie 15 anni , i suoi genitori gli regalano un quadernetto, come questo qui che tengo appeso al collo.

Ed è tradizione che a partire da quel momento, ogni volta che uno di noi gode intensamente di qualcosa apre il quadernetto e vi annota:

  • a sinistra, che cosa ha assaporato
  • a destra, per quanto tempo è durato il piacere

Ha conosciuto la sua ragazza, si è innamorato di lei. Per quanto tempo è durata la grande passione e il piacere di averla conosciuta? Una settimana? Due? Tre settimane e mezzo?

E poi ... l'emozione del primo bacio, il piacere meraviglioso del primo bacio, quanto sono durati? Il minuto e mezzo del bacio? Due giorni? Una settimana?

E la gravidanza o la nascita del primo figlio?

E il matrimonio degli amici?

E il viaggio più desiderato?

E l'incontro del fratello che ritorna da un paese lontano?

Per quanto tempo è durato il piacere di queste situazioni? per quante ore? Per quanti giorni?

E così continuiamo ad annotare sul quadernetto ciascun momento in cui assaporiamo il piacere ... ciascun momento.

Quando qualcuno muore, è nostra abitudine aprire il suo quadernetto e sommare il tempo in cui ha goduto, per scriverlo sulla sua tomba, perché secondo noi, quello è l'unico, vero tempo vissuto".


Il piacere è stato per lungo tempo demonizzato, visto con sospetto. Invece il piacere, inteso come gioia, soddisfazione, appagamento è fondamentale nella vita.

Nella prima parte della vita, fino alla giovinezza, la gioia proviene soprattutto dai sensi, dal gusto ad esempio, dal tatto, dal movimento, dal contatto e dal piacere sessuale.

Nella vita adulta, la gioia proviene soprattutto dal coinvolgimento. Cioè dal fare un'attività che sentiamo nostra, che ci appartiene, che ci permette di esprimere le nostre qualità.

Nella maturità, la gioia proviene soprattutto dall'appagamento, cioè dal piacere di vedere quello che abbiamo fatto nella vita, dai frutti del nostro impegno.

Nella vecchiaia, la gioia proviene soprattutto dalla serenità, dalla sensazione di aver dato il nostro contributo e dall'aver fatto pace con il nostro passato, con i nostri rimorsi e rimpianti.

Cos'è che ci dà gioia?

Cos'è che ci riempie?

Come fare per passare dalla fatica di vivere alla gioia di vivere?

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La città dei pozzi

C'era una volta una città che non era abitata da persone, come tutte le altre città del pianeta, ma da pozzi, pozzi viventi.

I pozzi erano diversi gli uni dagli altri, non soltanto per il luogo in cui erano stati scavati ma anche per la vera (l'apertura che li collegava all'esterno).

C'erano pozzi facoltosi e appariscenti con vere di marmo e metalli preziosi, altri con vere di legno e mattoni, e altri ancora, più poveri, erano semplici buche che si aprivano nel terreno.

La comunicazione tra i pozzi avveniva di vera in vera e le notizie si diffondevano rapidamente, da un punto all'altro del paese. Un giorno giunse in città una moda che era nata sicuramente in qualche paesino degli umani.

Secondo questa nuova idea, qualsiasi essere vivente degno di questo nome avrebbe dovuto prestare molta più attenzione all'interno rispetto all'esterno. L'importante non era quello che usciva in superficie ma il contenuto.

E fu così che i pozzi presero a riempirsi di oggetti.

Alcuni si riempivano di gioielli, monete d'oro e pietre preziose. Altri, più pratici, si riempirono di elettrodomestici e aggeggi meccanici. Altri ancora optarono per l'arte, e si andarono riempiendo di dipinti, pianoforti a coda e sofisticate sculture post-moderne. Infine quelli intellettuali si riempirono di libri, manifesti ideologici e riviste specializzate.

Passò il tempo.

La maggior parte dei pozzi si era riempita a tal punto che dentro non ci stava più niente.

I pozzi non erano tutti uguali, e anche se qualcuno era contento così, altri pensarono di dover far qualcosa per continuare ad accumulare cose al proprio interno.

Uno di questi, invece di comprimere il contenuto, cominciò ad aumentare la propria capacità allargandosi.

Non passò molto tempo che la sua idea venne imitata: tutti i pozzi impiegavano gran parte delle loro energie ad allargarsi per fare spazio al proprio interno.

Un pozzo piccolino e lontano dal centro della città vide che i suoi compagni avevano cominciato ad allargarsi a dismisura. E pensò che se avessero continuato a gonfiarsi in quel modo ben presto i loro bordi si sarebbero toccati confondendosi tra loro, e ciascuno avrebbe perduto la propria identità.

Forse proprio grazie a questa idea gli venne in mente che un altro modo per aumentare la capacità era crescere non in ampiezza bensì in profondità. Diventare sempre più profondo invece che più largo.

Ben presto si rese conto che tutto quello che aveva dentro di sé gli impediva di scendere in profondità. Se voleva diventare sempre più profondo doveva svuotarsi di tutto quello che conteneva.

All'inizio aveva paura del vuoto, ma vedendo che non aveva altre possibilità, decise di svuotarsi.

Ormai privo di possedimenti, il pozzo prese a diventare profondo, sempre più profondo, mentre gli altri pozzi si impadronivano delle cose di cui lui si liberava.

Un giorno, all'improvviso, il pozzo che cresceva verso il basso ebbe una sorpresa: dentro, giù, giù in fondo trovò l'acqua.

Prima di lui nessun altro pozzo aveva trovato l'acqua.

Il pozzo si riebbe dalla sorpresa e iniziò a giocare con l'acqua del fondo, inumidiva le pareti, spruzzava i bordi e alla fine fece zampillare l'acqua all'esterno.

La città era sempre stata bagnata soltanto dalla pioggia che in realtà era parecchio scarsa, per cui la terra intorno al pozzo, rinvigorita dall'acqua, iniziò a risvegliarsi.

I semi racchiusi nelle sue viscere germogliarono dando origine a fili d'erba, trifogli, fiori e fusti esilissimi che diventarono alberi.

La vita esplose in mille colori intorno a quel pozzo lontano che cominciarono a chiamare "il Vivaio".

Tutti gli domandavano come fosse riuscito a compiere il miracolo.

"Nessun miracolo" rispondeva il Vivaio "bisogna cercare dentro di sé, nel profondo".

Molti volevano seguire l'esempio del Vivaio, ma presto abbandonarono l'idea quando si resero conto che per scavare nel profondo dovevano svuotarsi. E invece continuarono ad allargarsi e allargarsi per contenere sempre più cose.

Al capo opposto della città, un altro pozzo decise di correre il rischio del vuoto ... e anche lui prese a scavare in profondità ... e anche lui arrivò all'acqua.

E anche lui la fece zampillare all'esterno creando una seconda oasi di verde.

"Che cosa farai quando l'acqua sarà terminata?" gli domandavano.

"Non lo so" rispondeva. "Per adesso, più acqua tiro fuori e più ne trovo".

Passarono alcuni mesi dalla grande scoperta.

Un giorno, quasi per caso, i due pozzi si accorsero che l'acqua che avevano trovato in fondo a se stessi era la stessa.

Uno stesso fiume sotterraneo passava dall'uno e andava a inondare le profondità dell'altro.

Si accorsero che per loro era iniziata una nuova vita. Non solo potevano comunicare da vera a vera, in superficie, come tutti gli altri pozzi, ma la ricerca aveva procurato loro un nuovo, segreto punto di contatto.

La comunicazione che raggiungono soltanto coloro che hanno il coraggio di svuotarsi di quanto contengono, per cercare nel profondo di se stessi ciò che possiedono e regalarlo agli altri ...


Alcune persone cercano di colmare il vuoto che hanno dentro accumulando oggetti materiali, complimenti, riconoscimenti e non si accorgono che per quanto ricevano non sono mai appagate.

Non sperimentano mai quella sensazione di pienezza tanto agognata. Rimangono insoddisfatte e tornano ad accumulare, a comprare.

Sono affamate, voraci, sbilanciate nel "prendere" e non sperimentano mai il piacere di donare.

Alcune si comportano come dei predatori, prendono tutto quello che possono prendere e non danno.

Alcune persone ricche vivono in un'eterna insoddisfazione.

Dovrebbero chiedersi:

Cosa desidero veramente?

Cosa chiede la mia anima?

Cosa chiede il mio cuore?

Andare più in profondità. E non fermarsi ai desideri dell'IO, dell'EGO.

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